“Per non dimenticare Auschwitz”
120×80 cm
acrilico su tela
Aragona (AG), 2017
Si tratta di uno dei più recenti lavori dell’artista aragonese Giuseppe Cacciatore.
Con questa sua opera l’autore esprime tutto il potere della morte sulla vita e la rassegnazione ad un destino crudele che spetta ai condannati. È una tela che rappresenta, come è facilmente intuibile, il dramma dell’Olocausto nei campi di sterminio nazisti. In essa prevalgono due gruppi di colorazioni: da un lato quelle contenenti colori sbiaditi, neutri e pallidi come i volti degli internati in attesa della loro sorte e che ben presto si trasformerà nella realizzazione particolare della più complessiva opera chiamata «Soluzione Finale»; dall’altro le tinte più fosche e cupe che tratteggiano i contorni delle figure rivolte tutte verso l’osservatore e che costituiscono l’intero insieme pittorico. Spettri umani ritti verso una pseudo altura pronta a sprofondarli verso il basso, in un abisso di orrenda rassegnazione che non può minimamente volgere più verso nessun tipo di speranza. Come cadaveri consumati già dall’opera di disfacimento della morte, che spetta alla maggior parte di essi, questi condannati attendono il loro ineluttabile destino, in un vuoto spettrale che avvolge le loro ombre e le loro facce protese verso l’oblio. Nonostante i loro corpi non poggino sulla terra, essi sono diretti lo stesso verso di essa, come in uno scioglimento collettivo che preannuncia la loro drammatica fine attraverso l’incenerimento. Terra non rappresentata e che manca sotto di essi come substrato vitale. I colori cinerei macchiando il quadro, creano anche la sua naturale cornice; fanno sì che vi sia un triste e lugubre richiamo all’enorme fumare della ciminiera del Gran Calderone che sbuffa di continuo. Il filo spinato a tratti sembra visivamente svanire quando l’occhio dello spettatore è totalmente concentrato sul volto degli astanti. È un reticolato che contiene le loro stesse vite ed anime, catturate placidamente dal terrore e paralizzate dalla vicina sorte che li attende. Sembra descrivere, come su di un pentagramma di morte, delle lettere che vorrebbero accennare a delle parole che però non possono più essere pronunciate da nessuno di loro. Esseri che ormai non hanno più nulla da dire né al mondo né a loro stessi. Sembra quasi che tra quelle righe ci siano incisi gli ultimi messaggi testamentari, evocativi di una fine ormai prossima, alla quale non può essere posto alcun rimedio. Siamo ad Auschwitz, ma anche a Treblinka o a Dachau. Siamo in un luogo non geografico, senza alcuna connotazione logica e umanamente indefinibile. Siamo in un qualsiasi posto metafisico dove regna la disperazione, dove non c’è posto per nessun tipo di operazione di conoscenza di sé e dell’universo che ti circonda. La sola sensazione possibile è quella di scorgere un mondo che si fa cantore della tua morte e che ti consente, come unica azione mentale possibile, quella di conteggiare il momento finale che ti separa dalla tua infima esistenza. Esiste però una luce proiettata stranamente verso il coro dei «pigiamati a strisce», ed è quella che li rende “attori principi” della genocidiaria mattanza nazista. Essa illumina i loro volti, rendendoli quasi incandescenti ma senza splendore. Sanno di calce e di cenere, di cartone e di legno. Pupazzi umani, illuminati dall’occhio di bue dell’orribile rappresentazione scenica, che li ha trasformati in candele pronte a liquefarsi sotto il peso dell’odio disumano dei loro carcerieri. Eppure questa luce fioca e spenta, potrebbe significare anche una minima e debole speranza di sopravvivenza, concessa misteriosamente solo ad alcuni di loro, come fugace dono di salvezza terrena.
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