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Gli ariani o indoari o più semplicemente arii furono un popolo nomade delle steppe euro-asiatiche che nel II millennio prima di Cristo, muovendosi verso sud ed abbandonando il proprio areale originario (Afghanistan settentrionale), raggiunse il nord dell’India e l’odierno Iran seguendo due direzioni opposte. Queste due diramazioni sono alla base di una differenziazione linguistica dovuta alla differente evoluzione etnica causata da diversi fattori tra i quali il normale mescolamento con altri popoli. Una strana teoria tardo ottocentesca, priva di rigore metodologico e di qualsiasi approccio scientifico, facendosi spazio in diversi ambienti accademici al fine di creare determinate distinzioni razziali, concettualizzò un’ipotetica comunione etnica tra diversi popoli euro-asiatici dell’antichità, appartenenti alla mega famiglia delle lingue indoeuropee.
Operava in un modo scientemente ambivalente: da un lato univa in una pseudo unione fraternale genti tra loro lontanissime e dall’altro creava invece un’esclusione etnica con popoli tra loro prossimi o viciniori; il tutto senza alcun fondamento antropologico e accomunando gruppi imparentati da un remoto e discutibile legame linguistico. Ad esempio i popoli germanici e i popoli dravidici dell’India, nei rispettivi idiomi, condividono tra di loro lontanissime radici etimologiche separate da enormi distanze linguistiche!
Quella delle lingue indo-europee è una famiglia che racchiude da un lato le parlate neolatine, greche, germaniche e slave (più altre parlate sui generis), e dall’altro l’insieme delle lingue indo-iraniche comprendente l’iranico, l’armeno, e tutto il complesso idiomatico usato in India, Afghanistan, Pakistan e Tagikistan. L’aspetto linguistico puntava a dimostrare in modo ideologico una naturale distanza tra le comunità indoeuropee e tutti gli altri; in particolar modo verso i popoli camitici e semitici: in quest’ultimo gruppo spicca per eccellenza quello ebraico! Teorie di dubbia valenza scientifica, preordinate ad un finalismo insensato e contaminato da idee blasfeme e folli. Da lì è stata partorita la cosiddetta teoria della razza ariana [ideologia], che va nettamente distinta dall’arianesimo (dottrina ed eresia riguardante le dispute cristologiche del III-IV secolo d.C. in seno alla Chiesa nascente). Si tratta di due concetti differenti e tra loro completamente estranei.
Intorno al 1500 a.C. gli arii penetrando in India da nord iniziarono a trasformare l’intera geografia umana e antropica del subcontinente indiano, imponendosi sulle genti indigene di stirpe dravidica stanziate nell’area da diverso tempo. A questo punto è necessario soffermarsi su alcuni aspetti riguardanti la struttura antropologica di due delle religioni «indiane» per eccellenza: l’induismo e il buddismo. Nonostante le relative differenze entrambe possono essere poste ad un livello di complementarietà elevata, a motivo delle loro tante intersecazioni culturali. Risulta indispensabile citare il pensiero di uno studioso delle religioni, che in un suo lavoro sul buddismo si sofferma sulla religione induista dalla quale è nato proprio primo.
«Forse anteriormente a un millennio e mezzo prima di Cristo, comparvero sul passo di Pesjawar e sui colli delle montagne dell’Hindoukush, degli uomini alti dalla pelle chiara. La loro lingua classica, il sanscrito vedico, somigliava al veteropersa. Chiamavano se stessi «arya», che significa nobile […]»
C. Coccioli, Budda e il suo glorioso mondo, ed. CDE Rusconi, Milano, 1990, pp. 88-89.
Linguisticamente la radice «ṛta » sta alla base del termine rito comune a tre lingue: latino, greco e sanscrito. Tutte e tre appartengono alla macro-famiglia delle lingue indo-europee. Il significato stesso di religio è quello di rito. Praticare un rito continuativo e ripetuto nel tempo è l’unico mezzo che lega l’essere umano al divino. La religione non è nient’altro che un “religare” (dal lat.) un legare le cose alla realtà soprannaturale tramite pratiche e azioni sacre che si estrinsecano in formule sacramentali. Il termine ritus in latino è connesso al sanscrito ṛta che sta per ordine cosmico o insieme di leggi immutabili che regolano il ciclo della vita. Ṛta ऋत significa muoversi, dirigersi; vuol dire procedere seguendo le giuste regole; è sinonimo di giusto comportamento. Il prevalere del ritus-rta si è manifestato in un suono diventato poi mantra (o litania) riecheggiante nell’universo al fine di preservarlo e di mantenerlo integro.
«Ad esso (al ritus) si conforma evidentemente anche l’azione sacra, mentre deviando da esso si rischierebbe di rompere l’ordine, provocando conseguenze dannose» [Treccani – Dizionario Enciclopedico Italiano, 1970].
La letteratura vedica non è nient’altro che uno sterminato insieme di ritmi poetici. Concettualmente l’induismo può essere definito, secondo noi, in questo modo: è tutto l’insieme di culti, di pratiche e di credenze che accomuna le diverse fedi presenti nel subcontinente indiano. È un politeismo accentrato in cui predominano tre dei su tutti gli altri, uniti in una triplice comunione chiamata Trimurti; altro non è che la tripla manifestazione dell’Essere Supremo «in tre persone distinte ed una sola»: Brahmā, Visnu e Shiva. Ad essa si contrappone come duplicità dell’essere, la Trimurti femminile composta da Saraswati, Lakshmi e Parvati, anch’essa «unita in tre persone distinte ed una sola». Queste due trinità possiedono diversi avatar o manifestazioni del divino attraverso le incarnazioni umane. Le più famose discese sulla terra del Supremo, sono quelle degli eroi Rama e Kṛṣṇa, esseri divini entrambi avatāra di Visnu (che ne possiede ben dieci). Occorre dire però, che col tempo la misura della devozione si è invertita. La venerazione popolare per questi uomini-dei [normalmente per uno solo di loro due] nel corso dei secoli è diventata sempre più considerevole e si è trasformata in pura adorazione al punto da sostituirsi alla stessa Trimurti. Gli indù sono dunque tutti politeisti: venerano in misura inferiore un Dio-Triplice-Supremo e adorano in misura maggiore una delle sue tante incarnazioni principali assieme ad un vasto gruppo di dei minori (deva).
Il dio vedico Indra a cui si riferisce la foto di sopra (immagine scattata nel tempio di Hoysaleswara dedicato al dio Shiva) un tempo era il protettore degli arii. Era una divinità vedica primordiale; il dio del cielo e dei fulmini; il Giove tonante degli indiani. Oggi che gli ariani si ritrovano mescolati ai dravidici, è relegato a semplice guardiano dei templi delle divinità maggiori! Questa è la storia degli arii: i bianchi della steppa che nel subcontinente indiano hanno contribuito a creare una cultura unica dalla quale è nato tutto l’universo indù. Un gigantesco mondo carico di riti, di fedi e di usanze, che ha proiettato l’intimo degli indiani (e dunque dell’uomo stesso) verso il misticismo e il ciclo cosmico dell’esistenza.